
“ALZA LE MANI PERÒ ALLA FAMIGLIA NON FA MANCARE NULLA. FERITE INVISIBILI E FALSI MITI DELL’AMORE DOMESTICO”.
Ho accolto con grande piacere l’invito di Annika Widen a questo incontro, sulla violenza domestica, sia perché Annika è una donna che si impegna e aiuta sensibilmente, fattivamente, altre donne a svincolarsi dalla maglie di legami violenti, sia perché l’incontro che porta il titolo del suo libro, FERITE INVISIBILI, era per me indicato a proporre una riflessione che spesso guida i miei interventi nell’attività clinica professionale con donne vittime di violenza domestica.
Ci sono due temi che ho voluto introdurre già nel titolo ” ‘Alza le mani però alla famiglia non fa mancare nulla’. ferite invisibili e falsi miti dell’amore domestico“, scelto per il mio intervento.
Il primo è la collusione di chi subisce violenza verso chi la pratica: ‘alza le mani -(lui, il marito di una signora che ho seguito in terapia)- però non fa mancare nulla alla famiglia’. Una permissività alle mani alzate che picchiano, o uno sconto dovuto su di esse in termini di accettazione per una responsabilità, provvedere alla famiglia, percepita come non dovuta e quasi come un valore aggiunto. Un paradosso, perché pare che quel valore quantificabile in quanto fornitura, vada a giustificare la sottrazione di un altro valore, incommensurabile: il rispetto per il proprio corpo, la propria persona, la propria vita, e quindi la propria salute e dignità.
Il secondo riguarda i falsi miti dell’amore domestico, che, appositamente non ho definito violento, perché l’amore violento non esiste, l’amore patologico non esiste: o esiste l’amore, anche ostacolato nell’offrirsi e per questo tanto faticoso quanto nobile, ma non violento, o esiste un legame d’attaccamento disfunzionale e che anche fosse funzionale continueremmo a non chiamare amore, ma legame d’attaccamento.
Partiamo dal secondo tema.
E’ spesso chiamato ‘amore violento’, ‘amore patologico’, quello tra due partner, conviventi, coniugi, o separati, che iniziava come un legame sereno, fatto di attenzioni, di presenza e degenerato in trascuratezze, umiliazioni psicologiche, emotive, fisiche economiche, in possesso e infine violenza.
Si tratta spesso di legami caratterizzati fin dall’inizio da un alto grado di fusionalità da parte di entrambi i partner, ad indicare nelle situazioni più estreme un bisogno di incorporazione e definizione di sé attraverso l’altro e dalla difficoltà per entrambi di separarsi di fronte a una forte disfunzionalità della coppia. Gli uomini rifiutano l’abbandono, le donne temono di abbandonare. Nelle storie di vita di queste persone, uomini e donne, si riscontrano spesso vissuti di violenza domestica assistita o diretta, quando erano ancora bambini e bambine piccoli/e. Se hanno avuto genitori che abusavano di loro o che li esponevano a violenza tra di loro, è molto probabile che questi bambini abbiano cominciato a percepire le proprie figure di riferimento come ambivalenti, destabilizzanti, le stesse di cui si fidavano e da cui hanno per un po’ ricevuto protezione e sicurezza si rivelano poi minacciose, pericolose per sé e per i genitori stessi. Di fronte a questa minaccia percepita, che è una minaccia di vita e di integrità delle proprie risorse esistenziali, i bambini hanno da una parte dei danni sulle capacità di prendere decisioni, per esempio da che parte stare, perché la loro rappresentazione del mondo adulta è precocemente alterata insieme alla presenza di uno stato profondo di angoscia, confusione ed incertezza, dall’altra hanno un forte senso di colpa. Questo senso di colpa è funzionale a mantenere in loro un certo controllo sulla realtà. Attraverso la colpa e la sua espiazione, per esempio con atteggiamento sempre collusivo nei confronti del genitore violento, possono aver fiducia in due cose: 1. che il genitore aggressivo cambi e che quindi sia almeno illusoriamente preservata l’iniziale percezione della figura genitoriale come protettiva, 2. che si abbia il potere di cambiare la realtà modificando le proprie condotte e che quindi non si sia impotenti. Quali condotte possono adottare i bambini di fronte alla violenza diretta o assistita perché non si sentano impotenti e possano continuare a controllare la realtà?
Adottano almeno tre strategie di adattamento e sopravvivenza. Possono emulare il genitore aggressivo e identificarsi in una figura negativamente dominante, diventare essi stessi punitivi. Possono intervenire nei confronti del genitore vittima di violenza e adottare condotte invertite di accudimento, che assumono anche toni di controllo sulla realtà. In età adulta questo processo andrà a formalizzarsi nella cosiddetta sindrome della crocerossina. Oppure possono investire su meccanismi seduttivi manipolatori, dove la sessualità boicotta il sistema di sicurezza e difesa. In età adulta tale strategia assumerà le forme della cosiddetta sindrome di Stoccolma. Un bambino abusato o testimone di violenza assistita diventerà più facilmente aggressivo-punitivo o seduttivo-narcisista, e una bambina abusata o che abbia assistito a violenza domestica diventerà più facilmente accudente in modo invertito, sempre verso figure più autoritarie, o anche seduttiva-manipolatoria. In merito a quest’ultima forma di strategia seduttiva delle donne, quando si dice ‘se l’è cercata’, con riferimento agli abusi in età adulta, si dice in parte qualcosa di vero, ma solo perché andarsela a cercare deriverebbe da una storia da cui si sono dovute in qualche modo difendere e salvare.
E’ anche vero che si diventa vittime per la prima volta anche da grandi, che c’è sempre una prima volta anche in chi non ha avuto pregressi difficili, ma in questi casi è più facile trovare il modo di separarsi dalla fonte avversa e violenta. I processi decisionali sono rimasti integri, lo stato di coscienza è tale per cui aleggia meno incertezza su ciò che sia giusto o sbagliato fare. In questi casi è più facile che le donne riescano a denunciare.
Quindi l’amore violento non esiste, esiste l’attaccamento disfunzionale anche quando il legame per questi soggetti vive un’iniziale luna di miele.
Prendiamo ora il primo tema.
Cosa c’è dietro al parodosso, per cui se il proprio partner provvede alla famiglia si può con quel ‘però’ tentare di soprassedere alla violenza o addirittura negarla? Ci può essere la paura di fare un torto ai figli, che stanno nel progetto, più o meno consapevole, della famiglia, ci può essere la paura di denunciare, come spesso capita, per il rischio di una vittimizzazione secondaria sia da parte delle autorità che da parte del partner stesso, ci può essere da un punto di vista psicologico la resistenza di due emozioni: il senso di fallimento personale ed il senso di colpa.
Se guardiamo le storie di coppie dove la donna subisce violenza, troviamo spesso un partner all’inizio molto premuroso, molto gentile. ‘Non era così all’inizio, all’inizio era gentile, premuroso, mi faceva sentire speciale, mi diceva che ero tutto per lui, che non poteva fare a meno di me, che lo rendevo felice, ed io ero felice per lui. Poi il suo lavoro ha cominciato ad andar male, tornava a casa arrabbiato, mi diceva che la cena faceva schifo che non ero capace di fare nulla.. ed io mi sentivo non arrabbiata ma infelice per lui, infelice che lui fosse arrabbiato. Se provavo ad aiutarlo economicamente mi diceva che non era il mio mestiere. Mi faceva capire che non aveva bisogno di me e che io non ero più così importante da poterlo rendere felice anche se il lavoro andava male e in fondo ho sempre creduto di poter far di più per renderlo meno critico, meno aggressivo. Non ho mai smesso di credere di essere quella che sono sempre stata per lui, così importante da farlo da star bene’. E’ una delle tante frequenti comunicazioni che le pazienti mi esprimono in seduta. Queste donne si sentono fallite perché hanno creduto in ciò in cui i loro partner all’inizio gli hanno fatte credere, cioè di avere il potere di cambiarli e di non essere riuscite con quel potere ad evitare non di essere picchiate e umiliate, ma di mantenere la felicità del loro compagno.
Quando si assume di avere questo potere, indipendentemente dal fatto che tale assunzione sia un apprendimento storico, come descritto sopra, o recente, perchè per la prima volta, da adulte, qualcuno ha fatto in modo che percepissero di averne, se quel potere di essere speciali e importanti per il partner è poi dal partner stesso negato, l’emozione prevalente non sarà più il senso di fallimento ma il senso di colpa. Il senso di colpa, non la colpa. Se fosse colpa ci sarebbe un modo per riparare oltre il quale non è più necessario riparare. Trattandosi di senso di colpa, la riparazione non è mai adeguata, è sempre discutibile, e chi è tacciato di colpa finisce che, per mantenere quel senso di potere e quindi la felicità dell’altro, da cui, come alcune mie pazienti riferiscono, ‘dipende’ la felicità e la realizzazione di sé stesse, deve continuare a fare sempre di più e sempre meglio, sia per riparare alla colpa supposta che per mantenere quel potere a cui si è delegata la migliore definizione di sé.
Allora quel provvedere alla famiglia da parte dell’uomo violento è irrinunciabile, nonostante le mani vengano ‘alzate’, non solo per un presupposto progettuale familiare a cui si tiene ancora per valore tradizionale, non tanto e non solo per difendere certo amore, scambiato per sicurezza, verso i figli, -che invece vengono esposti a uno stress traumatico e ad apprendimenti invalidanti, come il senso di non essere importanti abbastanza per evitare che i genitori si abusino e si sottomettano l’uno all’altro,- ma soprattutto perché il provvedere da parte dell’uomo diventa il pegno, o la prova, con cui si vuole continuare a sperare di essere ancora speciali e dotate di potere, perché si dipende da quel potere quanto dalla felicità dell’altro.
Alla base quindi delle difficoltà a separarsi da uomini violenti c’è anche e soprattutto un’assunzione di potere, che l’uomo ad un certo punto fa credere non essere stato gestito o essere stato gestito male per la sua felicità, ed il concomitante senso di colpa che reitera questa assunzione di potere.
Le donne cominciano a liberarsi da uomini violenti quando smettono e rinunciano a credere di avere un valore speciale solo perché quelli glielo hanno fatto credere quando erano in luna di miele, quando smettono e rinunciano a credere di avere il potere di cambiarli perché le hanno fatte sentire almeno una volta speciali, quando smettono e rinunciano di far dipendere la propria felicità dalla felicità dell’altro.
Soprattutto, se ne liberano quando cominciano a rendersi conto che l’unico potere che hanno è quello di agire su di sé e fare la propria felicità oltre che salvezza.
Liuva Capezzani
Psicologa Psicoterapeuta- 339-4338362